Secondo quanto riportato in alcune ricerche condotte nel contesto italiano uno studente su cinque incontrerebbe, durante il proprio percorso scolastico, difficoltà tali da giustificare l’intervento di un esperto (Cornoldi, 2013). Tale stima, a prima vista eccessiva, se si considerano i diversi cicli di istruzione (dalla scuola primaria alla scuola secondaria di II grado), risulta in realtà in linea con la percentuale di ragazzi che per svariate ragioni possono incorrere in problematiche scolastiche differenti sino ad arrivare al definitivo ritiro dalla scuola. Sebbene tutte queste situazioni siano meritevoli di attenzione, una prima distinzione va fatta tra quelle che vengono definite difficoltà di apprendimento, che possono essere transitorie, di diverso tipo e non necessariamente gravi, e i veri e propri disturbi specifici dell’apprendimento (DSA), problematiche più gravi, radicate e meglio caratterizzate. Una definizione ormai classica di DSA è quella fornita nel lontano 1988 dal National Joint Commitee on Learning Disabities (Njcld), un’organizzazione nordamericana che raggruppa varia associazioni del settore, in base alla quale i DSA vengono descritti come:
“un gruppo eterogeneo di disordini che si manifestano con significative difficoltà nell’acquisizione e uso di abilità di comprensione del linguaggio orale, espressione linguistica, lettura, scrittura, ragionamento o matematica. Questi disordini sono intrinseci all’individuo, presumibilmente legativi a disfunzioni del sistema nervoso centrale e possono essere presenti lungo l’intero arco di vita. […] Benché possano verificarsi in concomitanza con altre condizioni di handicap (per esempio danno sensoriale, ritardo mentale, serio disturbo emotivo) o con influenze esterne come le differenze culturali, insegnamento insufficiente o inappropriato, i DSA non sono il risultato di queste condizioni o influenze.” (Cornoldi, 2013, p.31).
Questa definizione chiarisce innanzitutto che si tratta di disturbi evolutivi, con una base neurobiologica, che interessano selettivamente l’acquisizione delle competenze strumentali agli apprendimenti scolastici, lasciando intatto il funzionamento intellettivo generale. Ci si riferisce dunque alla presenza di capacità di lettura, scrittura e calcolo, significativamente inferiori a quanto atteso per età cronologica, intelligenza, livello di istruzione e ambiente socioculturale. Queste difficoltà si manifestano in assenza di deficit neurologici e sensoriali (ad esempio visivi o uditivi) e sono tali da incidere in maniera rilevante sul percorso scolastico del bambino.
Ciò che caratterizza tutti i DSA è “la mancata automatizzazione di alcuni processi di base, che dovrebbero essere cioè attivati senza il coinvolgimento dell’attenzione o senza un particolare sforzo nell’esecuzione” (Vio & Lo Presti, 2013, p.170). Pur trattandosi di disturbi costituzionali, e dunque cronici, la loro manifestazione clinica varia a seconda dell’età, delle richieste ambientali, dalla trasparenza del codice scritto e delle modalità d’insegnamento, per cui in una prima fase di valutazione per sospetto DSA, è opportuno prevedere sempre, accanto all’indagine approfondita dei parametri con valore diagnostico, anche un esame del modo in cui le difficoltà presenti sono affrontate a livello individuale, familiare e scolastico e in definitiva il loro impatto complessivo sugli apprendimenti. Questo aspetto risulta fondamentale per una diagnosi che sia finalizzata anzitutto a fornire al bambino gli strumenti e le condizioni ottimali per un percorso scolastico ricco e motivante.
In Italia la legge di riferimento in tema di DSA è la 170 dell’8 ottobre 2010 (Nuove norme in materia di disturbi specifici di apprendimento in ambito scolastico) che “riconosce la dislessia, la disgrafia, la disortografia e la discalculia quali disturbi specifici dell’apprendimento” (art.1) e sancisce che gli studenti con tale diagnosi abbiano “diritto a fruire di appositi provvedimenti dispensativi e compensativi di flessibilità didattica nel corso dei cicli di istruzione e formazione e negli studi universitari” (art.5). La diagnosi di DSA si associa in questo modo a precisi diritti in ambito scolastico, che hanno a che fare sia con l’esonero da specifiche situazioni di affaticamento direttamente coinvolte nel disturbo (misure dispensative, es. esonero dalla lettura ad altra voce in classe), sia con l’utilizzo di strumenti che possano compensare il deficit (misure compensative, es. utilizzo della calcolatrice, di mappe mentali), senza tuttavia che sia presente una modifica del livello degli obiettivi generali di apprendimento (come invece avviene Piani Educativi Individualizzati). Attualmente, in Lombardia, sono ritenute valide le diagnosi effettuate dalle Unità Operative di Neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza pubbliche e dalle équipe private autorizzate dalle ATS. In entrambi i casi l’équipe deve essere composta da psicologo, neuropsichiatra infantile e logopedista che siano in possesso di una preparazione specifica in materia di DSA. Tutte le diagnosi devono essere fatte in una fase successiva all’inizio dell’apprendimento scolastico: “è necessario infatti che sia terminato il normale processo di insegnamento delle abilità di lettura e scrittura (fine della seconda primaria) e di calcolo (fine della terza primaria)” (Consensus Conference, 2010, p.8).